Flying Houses by Laurent Chéhere

The Flying Houses è una serie del fotografo francese Laurent Chéhère , ispirato a Menilmontant – un quartiere povero e cosmopolita di Parigi, dove vive. Le immagini raccontano poeticamente e sottilmente la storia di una “realtà contemporanea rivelando le preoccupazioni di una classe impoverita dalla società”. Laurent isola questi edifici dal loro contesto urbano, li rilascia nel cielo, racconta le storie, i sogni e le speranze di questi abitanti. Le immagini sono fotomontaggi di centinaia di elementi che cattura per riunirli in seguito come un puzzle. A prima vista, appaiono spensierati e sognanti, a un esame più attento, i dettagli rivelano una storia più complessa.

 Nel secolo XIX Napoleone III e il suo urbanista di fiducia, il barone Haussmann, trasformarono Parigi in una serie di interminabili vialoni di tediosa armonia, distruggendo i resti della città medioevale. Tra questi un edifichi dietro la chiesa di St. Germain-l’Auxerrois, con la torretta da castello di principessa, che è stata recuperata a partire da una foto del 1866.

Aggiungendo dettagli che danno l’idea di una trasvolata nel tempo, graffiti dei giorni nostri e molti dettagli, Lurent Chéhere, artista parigino classe 1972, realizza una serie di Maisons Volantes, con cui dal 2012 raffigura temi che gli stanno a cuore: architettura e urbanistica, immigrazione e povertà, ma anche cinema, politica, storia e street art.

Style Magazine

 

 

SMART CITY

La città intelligente, dall’inglese smart city, è definita un insieme di strategie di pianificazione urbanistica tese all’ottimizzazione e all’innovazione dei servizi pubblici così da mettere in relazione le infrastrutture materiali delle città «con il capitale umano, intellettuale e sociale di chi le abita» grazie all’impiego diffuso delle nuove tecnologie della comunicazione, della mobilità, dell’ambiente e dell’efficienza energetica, al fine di migliorare la qualità della vita e soddisfare le esigenze di cittadini, imprese e istituzioni.

Le prestazioni urbane dipendono non solo dalla dotazione di infrastrutture materiali della città (capitale fisico), ma anche e sempre di più dalla disponibilità e qualità della comunicazione, della conoscenza e del capitale intellettuale e sociale. Quest’ultima forma di capitale in particolare è determinante per la competitività urbana.

 Il concetto di città intelligente è stato introdotto in questo contesto come un dispositivo strategico per contenere i moderni fattori di produzione urbana in un quadro comune e per sottolineare la crescente importanza delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC), del capitale sociale e  di quello ambientale nel definire il profilo di competitività delle città, muovendosi verso la sostenibilità e verso misure ecologiche sia di controllo sia di risparmio energetico, ottimizzando le soluzioni per la mobilità e la sicurezza.

Wikipidia

Hong Kong cage homes

HONG KONG – Spazi stretti

In origine c’era spazio solo per le brande, tanto gli operai stavano in cantiere o in fabbrica quasi tutto il tempo

Popolazione: 7.437. 000 abitanti
Superficie: 1.104 km2, circa un terzo della Valle d’Aosta
Densità: fra le zone più abitate del mondo (6.544 per km2)

Colonia britannica dal 1842 al 1997, oggi è territorio autonomo della Cina.

ERO A HONG KONG PER RACCONTARE i vent’anni dalla restituzione della colonia britannica alla Madre patria, la Cina (1997-2017). La promessa conciliante e ironica di Deng Xiaoping alla signora Thatcher è stata rispettata: «Non temete, a Hong Kong i cavalli continueranno a correre all’ippodromo, le azioni in Borsa resteranno calde e i ballerini danzeranno sempre nella notte». Due decenni di crescita della City e della sua finanza: gli inglesi hanno lasciato grattacieli, linee della metropolitana, vecchi tram dove si fa la sauna pagando pochissimo, una funicolare con vagoni in legno che si arrampicano su The Peak quasi in verticale (nella prima carrozza c’è una targa che segna il posto riservato al governatore coloniale che non c’è più). I cinesi hanno costruito grattacieli più alti e lussuosi, ora inaugurano un ponte di 55 chilometri sul mare, per collegare Hong Kong con Macao, stanno ultimando una stazione per l’alta velocità. Per la Borsa e le banche è «Business asusuai», anzi meglio: le libertà civili e politiche sono regredite sotto la pressione del modello cinese, anche la giustizia sociale può attendere, d’altra parte non c’era nemmeno all’ombra della bandiera di Sua Maestà britannica. Ma questa è un’altra storia, o forse vecchia Storia, perché a ben guardare, camminando nelle strade di questo territorio dal clima appiccicoso, è evidente che la gente comune di Hong Kong è passata solo da un impero a un altro. I ricchi sono più ricchi, i poveri più disperati, come in Occidente.

PARTIAMO DALLE CLASSI ALTE. Vi racconto come ho (quasi) comperato una casa da 16 metri quadri per poco meno di 500mila euro. L’ultima moda, e pure una necessità, di Hong Kong sono gli appartamenti molto ben rifiniti ma di misura lillipuziana: nello spazio che da noi occuperebbe la camera da letto ci sono cucina, soggiorno, bagno e balcone. Li chiamano Mosquito apartment, case zanzara. Ci vivono persone di buon reddito, come giovani bankers della City hongkonghese. Avevo letto un avviso sul South China Morning Post e sono andato a vederli, dicendo che volevo fare un investimento. L’agente immobiliare mi ha spiegato che sono proprio «un ottimo investimento», perché al costo di 500mila euro per i 16 metri quadrati poi si affitta subito a 10-11 mila dollari di Hong Kong al mese, vale a dire 1.100 euro. La vista non è male, il nuovissimo grattacielo di 30 piani, uno dei tanti, non è sull’isola ma a Kowloon. Aria condizionata, cucina attrezzata. Un solo problema, costo spropositato a parte, ho fatto notare che anche mettendo un letto a parete, non mi sembrava che ci fosse lo spazio sufficiente per allungare le gambe. Risposta: «Lo sappiamo, molti per dormire mettono i piedi sul davanzale, così si ottimizza». Ho detto che avrei deciso presto. E mi sono andato a fare un giro a Kowloon, sulla penisola di fronte a Hong Kong. Gioiellerie piene di turisti cinesi continentali, mercati all’aperto, cibo di strada, varia umanità. Densità della popolazione: 43 mila abitanti per chilometro quadrato. Un terzo dei 7,4 milioni di hongkonghesi vive ammassata qui. Molti sono intrappolati come topi.

Ai tempi degli inglesi le chiamavano cage homes, case pollaio, luoghi minuscoli popolati dai miserabili. Sono comparse negli Anni 50, per accogliere l’ondata di lavoratori migranti dalla Cina. Gli imprenditori per alloggiare la nuova manodopera ristrutturarono, si fa per dire, vecchie abitazioni, suddividendole in una quantità di cubicoli chiusi da reti, come quelle dei pollai. Ex appartamenti fatiscenti di 400 piedi quadrati (il conto in piedi è un’altra bella eredità britannica e 400 piedi fa 37 metri quadri), convertiti in 20 celle con letti a castello.
C’era lo spazio solo per le brande, tanto gli operai stavano fuori in cantiere o in fabbrica quasi tutto il tempo. Uomini liberi di vivere in gabbia. C’è stato un certo progresso, perché le reti a grata sono scomparse, sostituite da legno compensato, scatole con porte scorrevoli. Fa più caldo che con le grate, dentro, tra scarpe messe ad asciugare, attaccapanni, latrina attaccata al fornello a gas, provviste di cibo, l’unica comodità è un ventilatore elettrico.

Le nostre foto non hanno odore, meglio così, non è bello quello che arriva quando si apre una porta. Solo in corridoio si avverte una scia di incenso: i condomini lo bruciano in onore delle divinità. 11 legno compensato non ferma i rumori: il vicino che guarda l’ennesimo film di kungfu e anche quello che russa nel suo letto troppo corto e stretto. Molti ci vivono da soli, altri con la famiglia: l’ultimo censimento cittadino dice che sono 40mila gli hongkonghesi chiusi in scatola e altri 210mila costretti a stare stipati in spazi meno indecenti ma comunque opprimenti. E pagano almeno 1.800 dollari locali al mese, 190 euro, un terzo dello stipendio di un operaio. Chi si può permettere qualche piede quadrato di spazio in più spende 2.500 dollari. Il 70 per cento sono lavoratori sotto i 44 anni, il resto pensionati, emarginati. I dati sono della Society for Community Organisation (Soco), una Ong che soccorre i diseredati nel mercato immobiliare più costoso del mondo. «Sono vivo eppure sto già dentro una cassa da morto», è la battuta che circola tra gli abitanti ogni volta che un giornalista esploratore li va a intervistare. È il sense of humour innestato dal dominio britannico sul fatalismo dei cinesi del posto. E c’è anche il cinismo di chi affitta: uno di questi ricoveri, a poche decine di metri da un grattacielo di cristallo di Kowloon, si chiama Lucky House.

IL NUMERO DI QUESTA TRIBÙ continua a crescere, perché anche la legge del «mercato con caratteristiche socialiste cinesi» non fa sconti. Uno studio del governo locale a gennaio ha accertato che nel 2017 altri 10 mila hongkonghesi sono finiti in posti come Lucky House. E gli affitti salgono (è sempre il mercato).

C è poca terra edificabile a Hong Kong. Per allargarsi gli inglesi hanno usato per decenni il sistema della reclamation, bonifica di acquitrini e cementificazione del mare. Estremamente costoso e tecnicamente sempre più complesso, perché le aree più accessibili sono già state sfruttate. A fine aprile il governo ha costituito una task force per il territorio che ha preparato 18 proposte. per la popolazione: vanno dalla edificazione di case sui terminal dei container nel porto alla requisizione di un per- corso di golf, alla riconversione di aree agricole. Qualunque opzione richiede  anni prima di poter mettere il tetto su un palazzo di edilizia popolare. C’è opposizione da parte di gruppi d interesse: i miliardari del mattone che vorrebbero tirare su solo grattacieli per società finanziarie e residenti abbienti, i golfisti appassionati, gli amanti del verde. «Alcune delle idee sono state discusse per anni e questo dimostra quanto sia difficile metterle in atto», dicono dalla nuova task force. È intervenuta anche Greenpeace, per dire no alla cementificazione dei parchi e del mare nella zona di Victoria Harbour.

Aveva ragione il vecchio Deng Xiaoping, i cavalli continuano a correre all’ippodromo della Happy Valley, si danza ancora a Admiralty, la Borsa macina utili. Hong Kong non è cambiata.

di Guido Santevecchi  –  Sette-Corriere della Sera maggio 20.18

Foto di Benny Lam

 

IN GABBIA

Secondo la Ong Society for Community Organisation (Soco), che soccore i diseredati del mercato immobiliare, oltre 250.000 persone a Hong Kong vivono in case inadeguate.

Le fotografie di queste pagine sono state selezionate dal concorso internazionale Pictet dedicato alla sostenibilità. I lavori di tutti e 12 gli autori finalisti (tra cui figurano il vincitore Richard Mosse, Thomas Ruff, Sergey Ponomarev, Wasif Munef e Schei Nishino) saranno esposti fino al 26 agosto a Torino presso CAMERA (Centro Italiano per la fotografia www.camera.to)

Biennale a Venezia. Imperdibile appuntamento.

Yvonne Farrell e Shelley McNamara sono le curatrici della 16. Mostra Internazionale di Architettura, che si svolge dal 26 maggio al 25 novembre 2018 ai Giardini e all’Arsenale e in vari luoghi di Venezia. Il titolo scelto è Freespace, che rappresenta la generosità e il senso di umanità che l’architettura colloca al centro della propria agenda, concentrando l’attenzione sulla qualità stessa dello spazio.

Con questo tema la Biennale Architettura 2018 presenta al pubblico esempi, proposte, elementi – costruiti o non costruiti – di opere che esemplificano le qualità essenziali dell’architettura: la modulazione, la ricchezza e la materialità delle superfici, l’orchestrazione e la disposizione in sequenza del movimento, rivelando così le potenzialità e la bellezza insite dell’arte del costruire.

71 architetti di tutto il mondo si interrogano sul Manifesto di Yvonne Farrell e Shelley McNamara, impegnandosi in una indagine che sveli l’ingrediente freespace che trova spazio nei loro progetti.

 

Voglio vivere in una prigione dorata

Sette, Corriere della Sera del 15 marzo 2018

Voglio vivere in una prigione dorata

Le chiamano gated communities, comunità recintate: sono città dentro le città. Eleganti, esclusive, fornite di tutto e, soprattutto, riservate ai residenti.  Non conoscono crisi, proliferano con l’aumento delle diseguaglianze.
Cosa c’e dietro il sogno di vivere blindati?

di Tommaso Giani

RECINZIONI ELETTRIFICATE

Cancelli d’accesso piantonati 24 ore al giorno. Vigilanti armati all’interno. Un sistema di videosorveglianza. La sicurezza è una delle pietre angolari su cui poggiano le gated communities, le aree residenziali dove vivono benestanti desiderosi di alzare un muro tra sé e l’esterno. Un lussuoso guscio che protegge dal degrado e diventa una fortezza assediata (Fortress America è il titolo di un saggio di Blakely e Snyder del 1995).

Dagli Anni Settanta diventano un fenomeno consistente, con gli Ottanta arriva il boom (negli Stati Uniti quadruplicano la presenza). Negli anni successivi, poi, le gated communities entrano nell’immaginario (per esempio con film come La zona di Rodrigo Pia, nel 2007) e si fanno ancora più numerose, raggiungendo tutte le latitudini: dall’Indonesia alla Polonia, dall’Argentina alla Turchia.

Se gli Stati Uniti, e in particolare la California, segnano la tendenza, anche l’Italia vanta casi significativi. Una struttura difensiva? Una rielaborazione della città alta dell’antica Grecia? Di certo è uno dei modelli abitativi che meglio racconta il nostro tempo. E la sua espansione sembra proporzionale all’aumento delle disuguaglianze.

 La Gated Community è quasi sempre immersa nel verde. Steyn City, per esempio, ospita il più grande parco di Johannesburg. Il benessere è fatto anche di centri sportivi, piste per elicotteri, campi da golf con sentieri asfaltati. E poi scuole, negozi. Perché la gated community punta all’autosufficienza: trovare tutto ciò di cui si ha bisogno, senza più dover uscire e affrontare l’esterno, l’Altro. Ci sono persino chiese accessibili alla sola comunità, come quella consacrata di Borgo Vione, nel Comune di Basiglio (MI), così non serve uscire neanche per andare a messa.

Chi progetta, chi vende e chi vive le gated communities insiste sulla pienezza della libertà di cui in queste aree si può finalmente godere.

Ma ancora più importante, quasi sempre, è la sicurezza. Per pubblicizzare il primo progetto Alphaville, a San Paolo del Brasile, si puntò su una frase che prometteva molto, in una megalopoli dove il livello di insicurezza percepita era altissimo: «La libertà non ha prezzo ma ha un indirizzo: Alphaville».

Le gated communities possono nascere dal nulla o a partire da un’idea di riqualificazione. Se Alphaville nasce in uno spazio anonimo a nord di San Paolo, dove insedia improvvisamente trentamila abitanti, svariati servizi (inclusa un’università) e sessanta km di muro attorno, il Bow Quarter di Londra si sviluppa a partire dagli stabilimenti dismessi di un’importante fabbrica che produceva fiammiferi.

All’origine delle “comunità recintate”c’era il sobborgo statunitense, la Levittown del secondo dopoguerra destinata a famiglie di bianchi: villini unifamiliari, identici, disposti su uno stesso asse, al riparo dal caos metropolitano. E insomma lo scenario dell’ultimo film scritto dai fratelli Coen, Suburbicon (2017) dove si viene rassicurati dall’uniformità e pare mancare il conflitto, prima dell’arrivo di un capro espiatorio («Questo è un posto sicuro», «Lo era»).

A tutto ciò si aggiunge l’idea di un recinto tangibile. Che può essere diverse cose, a seconda della prospettiva. Una gabbia. Una trincea, specialmente quando l’area sorge a ridosso di uno o più quartieri stigmatizzati. O ancora un elemento isolante, come la soluzione che riempie le vasche di deprivazione sensoriale (un immobiliarista definiva il complesso che vendeva come «il regno del silenzio»). L’altro concetto-chiave per comprendere le gated communities è la distinzione sociale.

Risiedere in un posto del genere significa essere inclusi in qualcosa che è molto più di una tranquilla area residenziale nel verde. Varcare l’ingresso da residente garantisce prestigio. 

 Ci sono poi i CASI ITALIANI. Dapprima l’Olgiata, a Roma Nord, con le sue strade denominate da lettere e i due ingressi dove non si passa senza autorizzazione. Il territorio è stato proprietà dei baroni Olgiati, da cui prese il nome, prima che una serie di passaggi (incluso l’allevamento di puro- sangue) lo rendesse, alla fine degli Anni Sessanta, un pionieristico esempio di gated community italiana. Oggi sul sito del consorzio si ribadisce: «Il comprensorio dell’Olgiata è privato e chiuso».

La gated community di Borgo Vione, nell’hinterland milanese, è venuta su nel 2011 da un borgo agricolo spopolato. Dove c’erano pollai e stalle, oggi ci sono case dotate di ogni comfort. Dove vivevano e lavoravano i contadini, oggi abitanti benestanti si avvalgono dei servizi di una società che provvede a consegnare la spesa e innaffiare fiori.

E poi c’è la lottizzazione di Roccamare, in Maremma, con le sue duecento ville in pineta, o il caso di Monte Gentile nell’area dei Castelli romani (di recente analizzato da uno studio di Goffredo Palella), o ancora Fontanafredda (PN) dove il capo progetto spiegava: «Con tutti questi extracomunitari ci si barrica. Noi offriamo un quartiere inaccessibile».

 Tutto questo realizza nel mondo tangibile gli scenari distopici della narrativa di J. G. Ballard.

E non è un caso che romanzi come II condominio o Un gioco da bambini siano stati pubblicati tra la metà degli Anni Settanta e la fine degli Ottanta il periodo in cui le gated communities si impongono come modello sul mercato immobiliare di tutto il mondo. Gli spazi di Ballard sono, nelle intenzioni, delle conchiglie rassicuranti, dei paradisi sospesi.

In realtà si rivelano «prigioni foderate di pelliccia» come scrive ne II condominio. Recinti abitati da ossessioni rappresentative e segreti che non devono filtrare all’esterno. Oasi dove la quiete è sinistra, l’attesa di un caos distruttivo. Dove un isolamento volontario si rivela una reclusione forzata, molto simile a quella che intrappola i personaggi dell’Angelo sterminatore di Buiiuel.

 Naturalmente l’universalità del fenomeno si accompagna a implicazioni dalle fortissime differenze simboliche. In un Paese con la storia del Sudafrica, il sindacalista Patrick Craven disse a proposito delle gated communities di Johannesburg: «È quasi apartheid». Il poverissimo quartiere nero di Diepsloot è incredibilmente vicino al lusso di Steyn City e Dainfern, a maggioranza bianca. La fine del regime di segregazione è del 1991, le prime gated communities sudafricane nascono nel 1994.

Har Homa e Ma’ale Adumim, per un verso, i progetti di Rawabi e Jericho Gate, per un altro, sono insediamenti dove isolamento e sicurezza assumono un senso ancora diverso, perché si innestano nella questione israelo-palestinese. Muri e sorveglianza, separazione tra noi e loro, hanno qui uno spessore ben superiore. 

Di muri tra Stati Uniti e Messico, poi, parla il romanzo di T. C. Boyle, The Tortilla Curtain, uscito a metà degli Anni Novanta (América nell’edizione italiana), dedicato al rapporto tra una coppia messicana accampata nel Topanga Canyon e una coppia statunitense che vive nel complesso limitrofo di Arroyo Bianco, una gated community dove dieci campi da tennis si mescolano a oltre duecento case in stile Revival missionario.

 La rivendicazione del godimento di libertà, però, deve fare i conti, spesso, con un controllo sociale che limita la libertà stessa. In effetti può valere anche per le gated communities quanto Lewis Mumford scrisse a proposito dei suburbs statunitensi: «Offrono l’illusione dell’autosufficienza e della libertà mentre in verità sono dominate da processi automatici e pressioni materiali».

Un eremo, in qualche caso. Una fantasia. Un’illusione. Talvolta, quando le differenze sociali con le comunità esterne sono troppo marcate, una specie di prigione.

Talmente comoda da spegnere il desiderio di uscirne. Per questo, forse, la più pericolosa.