HONG KONG – Spazi stretti
In origine c’era spazio solo per le brande, tanto gli operai stavano in cantiere o in fabbrica quasi tutto il tempo
Popolazione: 7.437. 000 abitanti
Superficie: 1.104 km2, circa un terzo della Valle d’Aosta
Densità: fra le zone più abitate del mondo (6.544 per km2)
Colonia britannica dal 1842 al 1997, oggi è territorio autonomo della Cina.
ERO A HONG KONG PER RACCONTARE i vent’anni dalla restituzione della colonia britannica alla Madre patria, la Cina (1997-2017). La promessa conciliante e ironica di Deng Xiaoping alla signora Thatcher è stata rispettata: «Non temete, a Hong Kong i cavalli continueranno a correre all’ippodromo, le azioni in Borsa resteranno calde e i ballerini danzeranno sempre nella notte». Due decenni di crescita della City e della sua finanza: gli inglesi hanno lasciato grattacieli, linee della metropolitana, vecchi tram dove si fa la sauna pagando pochissimo, una funicolare con vagoni in legno che si arrampicano su The Peak quasi in verticale (nella prima carrozza c’è una targa che segna il posto riservato al governatore coloniale che non c’è più). I cinesi hanno costruito grattacieli più alti e lussuosi, ora inaugurano un ponte di 55 chilometri sul mare, per collegare Hong Kong con Macao, stanno ultimando una stazione per l’alta velocità. Per la Borsa e le banche è «Business asusuai», anzi meglio: le libertà civili e politiche sono regredite sotto la pressione del modello cinese, anche la giustizia sociale può attendere, d’altra parte non c’era nemmeno all’ombra della bandiera di Sua Maestà britannica. Ma questa è un’altra storia, o forse vecchia Storia, perché a ben guardare, camminando nelle strade di questo territorio dal clima appiccicoso, è evidente che la gente comune di Hong Kong è passata solo da un impero a un altro. I ricchi sono più ricchi, i poveri più disperati, come in Occidente.
PARTIAMO DALLE CLASSI ALTE. Vi racconto come ho (quasi) comperato una casa da 16 metri quadri per poco meno di 500mila euro. L’ultima moda, e pure una necessità, di Hong Kong sono gli appartamenti molto ben rifiniti ma di misura lillipuziana: nello spazio che da noi occuperebbe la camera da letto ci sono cucina, soggiorno, bagno e balcone. Li chiamano Mosquito apartment, case zanzara. Ci vivono persone di buon reddito, come giovani bankers della City hongkonghese. Avevo letto un avviso sul South China Morning Post e sono andato a vederli, dicendo che volevo fare un investimento. L’agente immobiliare mi ha spiegato che sono proprio «un ottimo investimento», perché al costo di 500mila euro per i 16 metri quadrati poi si affitta subito a 10-11 mila dollari di Hong Kong al mese, vale a dire 1.100 euro. La vista non è male, il nuovissimo grattacielo di 30 piani, uno dei tanti, non è sull’isola ma a Kowloon. Aria condizionata, cucina attrezzata. Un solo problema, costo spropositato a parte, ho fatto notare che anche mettendo un letto a parete, non mi sembrava che ci fosse lo spazio sufficiente per allungare le gambe. Risposta: «Lo sappiamo, molti per dormire mettono i piedi sul davanzale, così si ottimizza». Ho detto che avrei deciso presto. E mi sono andato a fare un giro a Kowloon, sulla penisola di fronte a Hong Kong. Gioiellerie piene di turisti cinesi continentali, mercati all’aperto, cibo di strada, varia umanità. Densità della popolazione: 43 mila abitanti per chilometro quadrato. Un terzo dei 7,4 milioni di hongkonghesi vive ammassata qui. Molti sono intrappolati come topi.
Ai tempi degli inglesi le chiamavano cage homes, case pollaio, luoghi minuscoli popolati dai miserabili. Sono comparse negli Anni 50, per accogliere l’ondata di lavoratori migranti dalla Cina. Gli imprenditori per alloggiare la nuova manodopera ristrutturarono, si fa per dire, vecchie abitazioni, suddividendole in una quantità di cubicoli chiusi da reti, come quelle dei pollai. Ex appartamenti fatiscenti di 400 piedi quadrati (il conto in piedi è un’altra bella eredità britannica e 400 piedi fa 37 metri quadri), convertiti in 20 celle con letti a castello.
C’era lo spazio solo per le brande, tanto gli operai stavano fuori in cantiere o in fabbrica quasi tutto il tempo. Uomini liberi di vivere in gabbia. C’è stato un certo progresso, perché le reti a grata sono scomparse, sostituite da legno compensato, scatole con porte scorrevoli. Fa più caldo che con le grate, dentro, tra scarpe messe ad asciugare, attaccapanni, latrina attaccata al fornello a gas, provviste di cibo, l’unica comodità è un ventilatore elettrico.
Le nostre foto non hanno odore, meglio così, non è bello quello che arriva quando si apre una porta. Solo in corridoio si avverte una scia di incenso: i condomini lo bruciano in onore delle divinità. 11 legno compensato non ferma i rumori: il vicino che guarda l’ennesimo film di kungfu e anche quello che russa nel suo letto troppo corto e stretto. Molti ci vivono da soli, altri con la famiglia: l’ultimo censimento cittadino dice che sono 40mila gli hongkonghesi chiusi in scatola e altri 210mila costretti a stare stipati in spazi meno indecenti ma comunque opprimenti. E pagano almeno 1.800 dollari locali al mese, 190 euro, un terzo dello stipendio di un operaio. Chi si può permettere qualche piede quadrato di spazio in più spende 2.500 dollari. Il 70 per cento sono lavoratori sotto i 44 anni, il resto pensionati, emarginati. I dati sono della Society for Community Organisation (Soco), una Ong che soccorre i diseredati nel mercato immobiliare più costoso del mondo. «Sono vivo eppure sto già dentro una cassa da morto», è la battuta che circola tra gli abitanti ogni volta che un giornalista esploratore li va a intervistare. È il sense of humour innestato dal dominio britannico sul fatalismo dei cinesi del posto. E c’è anche il cinismo di chi affitta: uno di questi ricoveri, a poche decine di metri da un grattacielo di cristallo di Kowloon, si chiama Lucky House.
IL NUMERO DI QUESTA TRIBÙ continua a crescere, perché anche la legge del «mercato con caratteristiche socialiste cinesi» non fa sconti. Uno studio del governo locale a gennaio ha accertato che nel 2017 altri 10 mila hongkonghesi sono finiti in posti come Lucky House. E gli affitti salgono (è sempre il mercato).
C è poca terra edificabile a Hong Kong. Per allargarsi gli inglesi hanno usato per decenni il sistema della reclamation, bonifica di acquitrini e cementificazione del mare. Estremamente costoso e tecnicamente sempre più complesso, perché le aree più accessibili sono già state sfruttate. A fine aprile il governo ha costituito una task force per il territorio che ha preparato 18 proposte. per la popolazione: vanno dalla edificazione di case sui terminal dei container nel porto alla requisizione di un per- corso di golf, alla riconversione di aree agricole. Qualunque opzione richiede anni prima di poter mettere il tetto su un palazzo di edilizia popolare. C’è opposizione da parte di gruppi d interesse: i miliardari del mattone che vorrebbero tirare su solo grattacieli per società finanziarie e residenti abbienti, i golfisti appassionati, gli amanti del verde. «Alcune delle idee sono state discusse per anni e questo dimostra quanto sia difficile metterle in atto», dicono dalla nuova task force. È intervenuta anche Greenpeace, per dire no alla cementificazione dei parchi e del mare nella zona di Victoria Harbour.
Aveva ragione il vecchio Deng Xiaoping, i cavalli continuano a correre all’ippodromo della Happy Valley, si danza ancora a Admiralty, la Borsa macina utili. Hong Kong non è cambiata.
di Guido Santevecchi – Sette-Corriere della Sera maggio 20.18
Foto di Benny Lam
IN GABBIA
Secondo la Ong Society for Community Organisation (Soco), che soccore i diseredati del mercato immobiliare, oltre 250.000 persone a Hong Kong vivono in case inadeguate.
Le fotografie di queste pagine sono state selezionate dal concorso internazionale Pictet dedicato alla sostenibilità. I lavori di tutti e 12 gli autori finalisti (tra cui figurano il vincitore Richard Mosse, Thomas Ruff, Sergey Ponomarev, Wasif Munef e Schei Nishino) saranno esposti fino al 26 agosto a Torino presso CAMERA (Centro Italiano per la fotografia www.camera.to)